Analfabetismo Affettivo

Letto sul N° 224 di “Noi Famiglia & Vita” del 17/12/2017

di Maria Grazia Contini*

A partire dal secondo dopoguerra, nella famiglia si sono registrati cambiamenti che ne hanno moltiplicato la complessità e hanno introdotto elementi nelle relazioni e nel modo di comunicare fra i sessi inimmaginabili in passato. Tuttavia, sarebbe ingenuo pensare che si è andati sempre nella direzione del miglioramento; infatti, molti aspetti oggi presenti nel panorama delle coppie e delle famiglie costituiscono in realtà nodi spesso problematici.
Un primo punto da cui partire per analizzare brevemente il quadro appena accennato può essere riferito ad un episodio autobiografico. All’inizio del 1940, i miei genitori avevano vent’anni, erano fidanzati da un anno e si amavano molto. Mio padre allora fu chiamato al servizio militare, che avrebbe poi significato partire per la guerra. Di fronte alle forti resistenze dei loro genitori, i due giovani insistettero molto per sposarsi prima della partenza, proprio a causa del futuro incerto che questa preparava, ma alla fine ottennero il permesso, celebrando il matrimonio nel gennaio di quell’anno. Dopo la cerimonia, nonna Ida, la mamma di mia madre, si avvicinò alla figlia e le disse: «Bene, ti sei sposata. Adesso ricordati: può andare bene, può andare male. ‘Deve’ andare bene». Non ha aggiunto altre parole, né benaugurali, o di felicità, di incoraggiamento, di speranza; solo queste.
In realtà, senza saperlo, la nonna Ida, come la grande maggioranza delle donne di quell’epoca – insieme ai loro mariti e ai loro figli – era espressione del cosiddetto paradigma morfologico della famiglia, secondo il quale essa ha valore in funzione della ‘forma’ che assume; in particolare, quella di un uomo e una donna che si sposavano in Chiesa, il cui matrimonio doveva durare per sempre e la cui sessualità era finalizzata alla procreazione. Quale fosse poi il reale ‘contenuto’ relazionale della coppia, la qualità della comunicazione e della condivisione, il tenore della genitorialità comune e partecipata, non era dato sapere.
Il matrimonio dei miei genitori, che si sono ritrovati dopo cinque anni alla fine della guerra quasi come due estranei, alla fine è ‘andato’ fino alla morte di mio padre; mia madre diceva che la guerra era l’unica responsabile di un matrimonio mediamente conflittuale, mediamente infelice.
Le donne dell’età di mia madre provenivano da un contesto culturale – pervasivo fino a essere come l’acqua nella quale nuotano i pesci: da loro non percepita, ma presentissima – in cui la scarsissima istruzione si accompagnava ad una visione molto romantica dell’amore, ereditata dal movimento letterario del romanticismo di fine ’800 entrato in profondità nel senso comune europeo e italiano.
Per i ragazzi, invece, la cultura di riferimento aveva un’impronta fortemente maschilista, ereditata anch’essa dal passato, per la quale la parità tra i sessi, anche in termini di condivisione e comunione, era qualcosa di profondamente sconosciuto e perciò non desiderato.
In questo quadro le famiglie generalmente ‘tenevano’. Tuttavia, come risulta da ricerche storiche e sociologiche, da biografie e autobiografie, dietro alla salvaguardia della forma, dietro alla legittimità morfologica della famiglia, erano molte le difficoltà che nascondevano, in più di qualche caso (anche se evidentemente non in tutti), realtà ben più tristi, di estraneità reciproca, di continui litigi, a volte di sopraffazione e violenza, spesso contro i più deboli, le donne e i bambini.
Nei settant’anni che ci separano da quel 1940 si sono sviluppati e radicati tutti quei fenomeni socio-culturali caratteristici del XIX secolo, che sono divenuti oggi il ‘nuovo’ contesto nel quale le coppie e le famiglie si costituiscono. L’industrializzazione e l’urbanizzazione, che provocano lo spostamento di grandi masse di persone dalle campagne alle città; le donne, che accedono all’istruzione e ai suoi livelli più alti e lavorano fuori casa; tutti quei cambiamenti che incidono sull’istituzione familiare, come l’accesso al divorzio, la regolamentazione delle nascite, la possibilità legale in alcuni casi dell’aborto; la globalizzazione dei mercati, il predominio dell’economico sugli altri aspetti dell’esistere, in seguito anche alla convinzione, soprattutto durante il boom degli anni ’60, che la ricchezza fosse accessibile proprio a tutti.
Tuttavia l’insistenza della cultura del benessere sulla triade (perversa) denaro- potere-successo, ha dato ampio spazio al radicarsi dell’individualismo, dirigendosi così verso una chiusura sempre più asfittica delle relazioni, che perdono aria nel tentativo di foraggiare sempre e solo la centralità dell’io e spostando così ‘gli altri’ nella zona di quelli da cui difendersiIn questi anni in cui sembrava fosse possibile che tutti avessero tutto, sono nati quelli che oggi hanno tra i 30 e i 45 anni, ai quali da bambini era stato detto che avrebbero ottenuto tutto quello che i loro genitori avevano già, se non di più. Ma una volta cresciuti, arrivati ai giorni nostri, si sono scontrati con l’aspra delusione della crisi economica, della povertà, dell’essere arrivati tardi, dopo che tutto il disponibile è stato in larga parte consumato dalla precedente generazione. A questo punto, la ‘progettazione dell’esistenza’ può diventare un vero problema, rappresentare una seria difficoltà: senza quei mezzi ben conosciuti, promessi allora e non più disponibili oggi, può essere davvero difficile ricollocarsi nell’attuale quadro sociale ed economico, relazionale e progettuale, politico e culturale.
Veniamo quindi alle famiglie di oggi ( al plurale), che portano i segni di una cocente delusione, strutturale alla cultura del tempo e alla storia che le ha precedute, e di un prepotente individualismo, dove ciascuno pensa prevalentemente a se stesso, anche quando si rapporta all’altro. La caratteristica forse più evidente di queste relazioni è l’’analfabetismo emozionale e affettivo.’ L’amore non è insegnato, né imparato. Eppure Erich Fromm già nel 1957 ne L’arte di amare sosteneva come l’amore non fosse immediatamente praticabile, ma richiedesse di essere ‘imparato’, in una sorta di tirocinio affettivo che mettesse le persone in grado di condividere l’amore tra loro.
Il non-imparare ad amare genera l’illusione emotiva della ricerca della persona giusta, scaricando su una favorevole congiuntura di eventi e circostanze fortunate, esterne, l’impegno invece tutto personale e intimo di costruire un’autentica relazione d’amore con l’altro. Una relazione cioè che sia sana, buona, che sia paritaria, responsabile, con un progetto comune, dove vi sia rispetto, solidarietà, empatia, comprensione, gentilezza, sostegno reciproco e la costruzione costante e condivisa di un sentimento in continua trasformazione verso i suoi stadi più solidi e stabili. Una relazione familiare sana sa comprendere al suo interno anche il conflitto e la capacità di affrontarlo e risolverlo ‘pacificamente’, senza credere che sia ‘la fine del mondo’, senza consentire che da questo si generi rottura e violenza, ma recuperando ogni volta pace e rispetto reciproco non solo affinché la famiglia sopravviva, ma perché viva felicemente.
Oggi è chiesto molto alle coppie e alle famiglie; gli ambienti relazionali, soffrono sempre di alcune problematicità, tanto in passato, come si è visto, quanto nel nostro tempo, dove la complessità è la variabile che descrive meglio i fenomeni familiari e tuttavia non chiarisce realmente cosa ci sia da fare.
Ci sono però strategie educative alla progettualità esistenziale nel mondo e con l’alterità, che prevedono il coinvolgimento delle categorie dell’impegno e della responsabilità, della flessibilità e del dialogo, che, anziché inaridire le relazioni, insegnano di nuovo ad amare e, una volta adottate come comportamenti, aiutano alla costruzione di una relazione di coppia che possa e sappia essere il fondamento di una famiglia in grado di crescere e maturare in tutti i suoi membri.

*Già ordinario di Pedagogia generale e sociale, Filosofia dell’educazione e pedagogia dell’infanzia e delle famiglie Università di Bologna

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